Un sistema ortografico comune per i dialetti romanzi di Sicilia, Calabria e Salento.
0) IntroduzioneI dialetti romanzi di Sicilia e di Calabria sono indicati dai linguisti come “dialetti meridionali estremi”. Molte caratteristiche in comune ha con questi gruppi anche la varietà romanza parlata nella penisola del Salento, evolutasi in modo molto simile, che è anch’essa annoverata nei meridionali estremi, e che abbiamo deciso di includere in questo nostro trattato ortografico, vista la poca distanza linguistica che corre tra le due aree.
Il siciliano, che è stato la prima lingua a raggiungere la palma letteraria nella penisola italiana, era nel medioevo in genere scritto con una grafia molto diversa da quella odierna (hyuri o chelu per fiore e cielo); è principalmente coll’ingresso dell’italiano nell’amministrazione che si è cominciato ad usare comunemente molte soluzioni grafiche toscane. La grafia da noi proposta è appunto basata su quella italiana.
La nostra grafia non è polinomica, né obbliga nessuno a scrivere diversamente da ciò che dice, né ha lo scopo di creare una forma linguistica univoca per tutti; quello è piuttosto lavoro della koinè. Si limita a fornire le norme e i segni grafici, coi quali poi qualsiasi dialetto può essere rappresentato in un rapporto 1:1 colla sua fisionomia fonematica effettiva. Naturalmente, cerca di eliminare del tutto dallo scritto le allofonie o alcune variazioni troppo altalenanti, ma non le varianti dialettali in sé per sé. Generalmente si cerca di non utilizzare soluzioni troppo poco familiari o che pongano difficoltà tecniche (come per le tastiere digitali), che è uno dei motivi ad es. per cui prediligiamo ‹ddh› a ‹ḍḍ›.
La lingua siciliana ha 5 vocali: /a, ɛ, i, ɔ, u/, rappresentate rispettivamente da ‹a, e, i, o, u›. Vale la pena osservare la loro evoluzione a partire dal latino classico.
latino (o greco) | siciliano | esempio |
---|---|---|
a | a | annum > annu |
ā | cantāre > cantari | |
ae | ε | caelum > celu |
e | septem > setti | |
oe | i | poenam > pina |
ē | tēlam > tila | |
i | nivem > nivi | |
ī | fīlium > figghju | |
au | au | aurum > auru |
o | ɔ | novum > novu |
eu | Euplus > Joppulu | |
ō | u | sōlem > suli |
u | crucem > cruci | |
ū | mūrum > muru |
In posizione tonica, tutte le cinque vocali possono occorrere. In posizione atona, tralasciando i prestiti colti che spesso mantengono le vocali originali indipendentemente, la situazione dipende dal luogo:
La situazione di confusione tra una e l’altra pronuncia persisteva anticamente anche in Sicilia; il fatto è molto evidente per esempio in questa lettera del 1413 di Bianca di Navarra: Consiliarie noster dilecte. alu tinuri di li vostri litteri ki richippimu li iorni passati vi rispundimu, et primo: chi havimu scriptu a Iohanni di Vintimigla ki omnino digia fari rendiri tuctu lu bestiami ki prisiru li siracusani infra lu nostru terrenu di paterno maxime di li vostri burgisi; zoki indi exequira non sapimu; ben vi dichimu ki secundu la sua risposta sirra la nostra provisioni, et per effectu la vidiriti. et contempta (sic) simu farivi fari ad peticioni di li vostri burgisi killi litteri patenti ki vurriti, cumandandu a tucti nostri obedienti, et maxime quilli di la nostra cammara, ki undi si trovira bestiami oy altri cosi di iohanni di vintimigla et soy homini, ki sianu impachati per satisfacioni di li vostri burgisi.
Nei dialetti siciliani più gallicizzati è presente la scevà [ə]; si tratta sempre di un allofono di altre vocali, quindi non serve scriverla con una lettera particolare.
La metafonesi è un fenomeno di armonia vocalica regressiva, per cui la vocale finale della parola influenza la precedente, solitamente causata da /i, u/ finali. È diffusa in Sicilia centrale, nel Ragusano, nelle Serre calabresi, e nel Salento meridionale. Può esitare in un dittongo ascendente (a Ragusa bièddhu, buònu, a Canicattì buènu) o discendente (a Calascibetta bìeddhu, bùonu, a Villalba e a Nicastro fìarru, fùacu); talora il secondo membro è ridotto a scevà, donde si giunge a volte alla monottongazione (come ad Enna biddhu, bunu). Qui la scrittura del dittongo è necessaria, essendo il corpo fonematico delle parole modificato. Difatti non tutte le parole hanno il dittongo, e talora il solo dittongo distingue parole di significato diverso, ad es. a Lipari (la) serpi ma (li) sierpi, a Canicattì (tu) duermi ma (iddhu) dormi.
La dittongazione incondizionata invece si riscontra in numerose località, tra cui centri maggiori come Palermo. In questo caso specifico, la dittongazione (o, più propriamente, la iatizzazione) non dipende da metafonesi, ma dalla posizione nella frase: [na ˈfimmina ˈbiaɖɖa] e però [na ˈbɛɖɖa ˈfimmina]. L’accento primario nel secondo caso è su fimmina, e il dittongo non si produce. La scrittura di questo tipo di dittongo si può considerare come superflua.
Mancando il siciliano di due delle vocali italiane, per indicare l’accento tonico è sufficiente il grave ‹`›: ànnu, bònu, sùli, lèttu, nìvi.
Similmente a quanto accade in italiano, non è obbligatorio marcare l’accento delle parole, se non nelle parole tronche (vasilicò). Nonostante ciò, marcare l’accento può avere il suo senso per parole altrimenti ambigue, rare e/o di origine non latina (scilòfaru, ziròpacu, zàccanu).
L’accento circonflesso ‹ˆ› indica la contrazione di due vocali, in genere negli articoli e nelle sequenze di pronomi: di la > dâ; di li > dî; mi lu > mû; in questo caso la contrazione crea vocali con pronuncia lunga. La lunghezza della vocale può cambiare il significato di una parola (fetu di pisci ≠ fetu dî pisci), pertanto deve essere segnalata; qualora non si possa usare facilmente l’accento circonflesso, è opportuno rompere la contrazione, piuttosto che non segnalarla: vitru di la machina. Questo uso, più conservativo, potrebbe anche essere prediletto in caso di stesura di testi formali: si pensi all‘inglese, in cui “do not” è affatto prediletto nel linguaggio formale rispetto a “don’t”.
L’uso dell’apostrofo in caso di aferesi (‘nfernu < infernu; ‘u > lu), oggi molto sottovalutato, è consigliabile in virtù della sua estetica, oltre al fatto che dà indicazione della caduta di una vocale che, potenzialmente, è ancora oggi presente in alcuni dialetti.
L’ortografia italiana è sufficiente a rappresentare le consonanti siciliane, con qualche modifica. Ci soffermeremo sui casi di divergenza tra siciliano e toscano.
In genere /b/ e /v/ si sono largamente confusi e /b/ passa spesso a /v/ in posizione iniziale, come in viscottu, vattiri, vasilicò. In contesti raddoppianti tuttavia, qualsiasi /v/ passa comunque a /b/. Per la scrittura, ci si dovrà rifare alla pronuncia in isolamento: [ˈvɔli, kib ˈbɔli] voli/chi voli, [viˈskɔtta, ˈlatti εb biˈskɔtta] viscotta/latti e viscotta.
‹b› va usato in quelle parole dove è pronunciato sempre /b/, pure in isolamento, come beddhu, buffa, bonu.
In Sicilia è diffuso allofonicamente il rotacismo di /d/ (pedi pronunciato [ˈpεri]), ma non nell’angolo nordorientale ed in parte della Calabria. Si raccomanda di scrivere sempre la ‹d›, visto che si tratta appunto di un’allofonia, inibita dal raddoppiamento (vd. riguardo /gr/), e che ci sono coppie minime tra /d/ e /r/ vero e proprio (come rasti ≠ dasti, vd. riguardo /gr/).
Il nesso /gr/ perde sovente la prima consonante, almeno in contesti non raddoppianti, ma questa è comunque da scriversi: granni, grossu, grasta, grattalora. Si noti inoltre che /r/ vero e proprio in posizione iniziale si legge doppio (almeno nei dialetti dell’isola): rasti (orme, tipicamente del coniglio) ≠ grasti (vasi per le piante); rànnula (dado delle ruote del carretto) ≠ grannula (grandine). La scrittura doppia di /r/ iniziale è superflua.
/lj, gl/ esitano nella maggior parte di Sicilia e Calabria in /ɟ/ (talora [gç]) che noi scriviamo ‹gghj›; figghju, famigghja. Nella Sicilia sudoccidentale si pronuncia invece similmente all’uso italiano /ʎʎ/, in alcune zone [jj], che è da scriversi ‹gli›: figliu, famiglia.
/nd/ e /mb/ in Sicilia assimilano in /nn, mm/; a seconda del dialetto si scriverà l’esito (granni/grandi, bumma/bumba).
Nel meridione è molto diffusa la sonorizzazione postnasale, per cui qualsiasi consonante sorda, se preceduta da una nasale, prende sonorità. È un’allofonia, attiva anche in sintassi, dunque in tali dialetti si deve scrivere cuntu, cumpari, antru, ‘nfernu, milinciana e assolutamente non *cundu, *cumbari, *andru, *‘nvernu, *milingiana.
In realtà, mentre in Sicilia /nd͡ʒ/ > /nt͡ʃ/ (ancilu, manciari, chianciri), in Calabria meridionale ciò non è avvenuto, e anche nei dialetti senza sonorizzazione postnasale il nesso suona /nd͡ʒ/. Pertanto, in questi dialetti si può scrivere angilu, mangiari, chiangiri pure quando sussiste la sonorizzazione; ci si deve rifare insomma alla situazione storica.
/j/ è esito comune di vari suoni latini, come in iocāre, maium, frīgere, diurnum, gelū, *genoculum > jucari, maju, jornu, frijiri, jelu, jinocchju; in siciliano è diffuso anche come esito di /g/: *gattam, gallum > jatta, jaddhu.
Qualche secolo fa il nesso /ll/ ha acquisito una nuova pronuncia retroflessa [ɭɭ], che, diffusasi in tutto o quasi il meridione estremo, ha dato un numero di esiti diversi. Quello più comune in assoluto è appunto [ɖɖ], da noi rappresentato come ‹ddh›, di diffusione molto ampia, ma ve ne sono altri tra Calabria e Sicilia. Tali esiti dialettali, benché sconsigliati in favore della più etimologica e universale grafia ‹cavallu› in una scrittura sovradialettale, necessitano di essere scritti giacché paiono avere autonomia fonematica, vedendo che /ll/ compare comunque spesso, ad esempio nelle parole prefissate con a- (beddhu però allisciari), e che si trovano addirittura coppie minime, come a Canicattì caddhu ≠ callu (callo, caldo). Tra gli esiti meno comuni, spesso fusioni in un altro fonema, vi sono:
Il comportamento di /t͡ʃ/ (la “C dolce”) è simile a quello che ha in italiano; in molti dialetti siciliani ha un allofono deaffricato [ʃ] se intervocalico e non raddoppiato (cfr. Alessandro Borghese quando dice: “Mi piace, dieci!”). Nei dialetti siciliani centrali (agrigentino, nisseno, ennese) e in quelli salentini la pronuncia affricata è in genere conservata.
La maggior parte dei dialetti siciliani, similmente al toscano, conosce il suono /ʃʃ/, come in sciarra, pisci, coscienza, solo nella sua quantità geminata, vale a dire doppia. La grafia tradizionale siciliana utilizza ‹x› per indicare tale fonema (talora giunta pure in italiano, vedasi Sant’Angelo Muxaro, o il cognome Craxi; sì, Craxi non sapeva la pronuncia del proprio cognome, che per di più è accentato Craxì); noi ci basiamo piuttosto sulla scrittura italiana, e invece utilizziamo ‹sc›. [ʃ] è presente, ma in genere solo come allofono di /t͡ʃ/.
Nei dialetti agrigentini, /t͡ʃ/ si pronuncia sempre [t͡ʃ] ed ha coppie minime con /ʃ/ singolo. Deriva in genere da /ʒ/ di parole galloromanze o da /s/ a contatto con vocali alte. Alcune parole del canicattinese con tale fonema: furnushìa “pensiero fisso”, mushiu “micio”, froshia “frittata”, stashiunata “estate”. Un esempio di tripla coppia minima: a Canicattì il trio cucinu ≠ cushinu ≠ cuscinu “cucino, cugino, cuscino”. Per tale suono abbiamo adottato la grafia ‹sh›.
Anche i dialetti salentini conoscono /ʃ/, in questo caso come esito di /j/ romanzo: si veda il salentino shiri, shiucari, shinaru, contro il siciliano jiri, jucari, jinaru. Anche qui si può adottare la scrittura ‹sh›.
/c/ (talora realizzato [kç]) è esito di /kl, pl/ latini: chjavi, chjazza, acchjanari, chjudiri. Si deve rappresentare obbligatoriamente, poiché si tratta a tutti gli effetti di un fonema, che ha coppie minime con /k/, ad es. sicchi (asciutti) ≠ sicchji (contenitori per l’acqua). Nel Ragusano passa sovente a /t͡ʃ/ (occiu piuttosto che occhju).
/ç/ origina dal nesso latino /fl/ (flūmen, flōrem, flammam > hiumi, hiuri, hiamma). Nella nostra grafia, viene scritto con ‹h(i)›. In molti dialetti, tuttavia, si è fuso a /t͡ʃ/; ad oggi è presente come fonema indipendente nell’Agrigentino, nel Nisseno e nelle Madonie, e nella Calabria meridionale. Benché nell’uso sovradialettale sia sempre consigliato l’uso di distinguere ‹h› da ‹c›, nei singoli dialetti in cui questa fusione è avvenuta si può scrivere solo ‹c›, come a Palermo ciumi, ciuri, ciamma. In Salento, l’esito è in genere fiuri.
/ffl/ in genere dà /çç/ in Calabria, nel qual caso si può scrivere come ‹hh›, come in ahhiari, da afflāre. In altre zone la variante doppia del fonema /h/ si unisce a /cc/ o a /ʃʃ/, nel qual caso si scriverà regolarmente ‹cchj› o ‹sc›: acchjari, asciari.
In Calabria, la χ greca (/kʰ/ in greco classico, già /x/ in greco bizantino, adattata come ‹ch› nella scrittura latina) ha come esito il fonema /x/, ad esempio in abbrahatu, zahala da βραχομένος, ψιχάλα. In Sicilia in genere corrispondono /f/ o /k/ (abbrafatu).
Anche la lingua araba ha fornito parole col fonema /x/ (da ḫ, ḥ o h), la cui diffusione oggi però è limitata a un’area conservativa dell’Agrigentino (ad es. a Bivona hama “fango”) e all’isola di Pantelleria; in particolare nel pantesco, ove, essendo la latinizzazione relativamente recente, v’è una forte presenza di prestiti arabi nel lessico e nella toponomastica. Pure questo suono si può scrivere ‹h› come in harrera “tessitrice”; nella maggior parte della Sicilia i vari suoni arabi di origine hanno esiti differenti, in genere /k/ o /g/, e difatti questo lemma suona altrove carrera o garrera.
Come in greco moderno, prima di /ɛ, i/ questa consonante ha, nei dialetti che la conservano, pronuncia [ç] (come il suono di hiuri).
Tali suoni posson rendersi, come in italiano, entrambi con ‹z›, vista la scarsità di contrasto. Qualora sia necessario, come in un dizionario, segnalare con precisione i due suoni, si usi ‹ẓ› per la sonora.
Mentre nell’ortografia italiana si scrive nei prestiti latini una sola ‹z›, quando il suono è in realtà sempre geminato, in siciliano ciò non è possibile, esistendo anche la variante singola: vozi ha una singola, mentre spazziu, come pozzu, ha una geminata.
Quelle elencate qui sono solo alcune delle più comuni nel territorio di nostro interesse; siano a mo’ d’esempio contro gli errori frequenti nella scrittura comune.
L’alfabeto usato nella nostra soluzione per scrivere il siciliano è esattamente quello italiano.
grafema | nome siciliano |
---|---|
A a | a |
B b | bi |
C c | ci |
D d | di |
E e | e |
F f | effi |
G g | gi |
H h | acca |
I i | i |
J j | i lunga |
L l | elli |
M m | emmi |
N n | enni |
O o | o |
P p | pi |
Q q | cu |
R r | erri |
S s | essi |
T t | ti |
U u | u |
V v | vu |
Z z | zeta |
A queste si aggiungano i diacritici:
diacritico | nome siciliano |
---|---|
‹ˆ› | azzentu circunflessu |
‹`› | azzentu gravi |
‹’› | apostrufu |
Il confronto globale tra grafemi e fonemi nella nostra grafia si può riassumere così:
grafema | fonema |
---|---|
a | /a/ |
e | /ɛ/ |
i | /i/ |
o | /ɔ/ |
u | /u/ |
scrittura | fonema | esempio |
---|---|---|
b | /b/ | bonu |
ci + a/o/u c + e/i |
/t͡ʃ/ | manciari cirasa |
c + a/o/u ch + e/i q |
/k/ | cori machina quali |
chj | /c/ | chjoviri |
gi + a/o/u g + e/i |
/d͡ʒ/ | seggia gebbia |
g + a/o/u gh + e/i |
/g/ | granni larghizza |
ghj | /ɟ/ | figghju |
gli + a/e/o/u gl + i |
/ʎʎ/ o /jj/ | figliu (centr.) |
gn | /ɲɲ/ | gnegnu |
j | /j/ | jocu |
l | /l/ | liuni |
m | /m/ | matri |
n | /n/ | notti |
p | /p/ | pani |
r | /r/ | racina |
s | /s/ | Sicilia |
sci + a/o/u sc + e/i |
/ʃʃ/ | sciarra |
shi + a/o/u sh + e/i |
/ʃ/ | froshia (centr.) shiocu (sal.) |
t | /t/ | tempu |
v | /v/ | vinu |
h + a/o/u | /x/ | abbrahatu harrera |
hi + a/o/u h + e/i |
/ç/ | hiuri |
z | /t͡s/ | zappa |
/d͡z/ | zammara |
scrittura | pronuncia | area |
---|---|---|
llh | [ɭɭ] | Calabria |
lh | [ʎ] | Calabria |
ddh | [ɖɖ] | Comune |
dh | [ɖ] | Calabria |
sgi + a/o/u sg + e/i |
[ʒ, ʐ] | Calabria |